I ponti non crollano soltanto in Italia, ma in tutto il mondo. La constatazione non può consolarci e non può costituire un’assoluzione dalle responsabilità che in ogni crollo ci sono e vanno accertate. Può soltanto indurci a non esagerare con l’autoflagellazione.
Anche l’Austria non è stata risparmiata da incidenti simili. Il caso più spettacolare che si ricordi risale al 1. agosto 1976. Quella mattina, tra le 4.53 e le 4.55 crollò il Reichsbrücke (il “ponte dell’impero”), che dalla Mexiko Platz di Vienna scavalca il Donaukanal, l’isola sul Danubio e infine il Danubio vero e proprio. Quando si dice il destino: era l’unico ponte di Vienna che i bombardamenti della guerra avevano risparmiato. Era sopravvissuto alle bombe degli Alleati, ma alla fine aveva ceduto per cause naturali (movimenti tellurici, logoramento delle catene e degli ancoraggi, corrosione delle parti portanti), cioè per tutto un insieme di fattori di invecchiamento, che – così scrisse la commissione d’inchiesta nominata a quel tempo – con i mezzi tecnici di allora non potevano essere diagnosticati.
La cosa curiosa è che, a differenza del viadotto il Genova, a Vienna non cedette una campata del ponte: venne giù l’intera struttura, da una sponda all’altra del Danubio. A quell’ora mattutina non c’era traffico e il crollo trascinò con sé due soli veicoli: un autobus e una vettura dell’Orf, la tv pubblica. L’autobus era vuoto ed ebbe la fortuna di non affondare nel Danubio, ma di posarsi sulle stesse macerie del ponte, rimanendo così sopra il livello dell’acqua: il conducente poté essere tratto in salvo incolume due ore dopo. Non ebbe la stessa sorte l’autista dell’Orf, che morì affogato.
Una tragedia più grave era accaduta l’anno prima, in maggio, a Gmünd, nell’alta Carinzia. Erano in corso i lavori di costruzione dell’autostrada dei Tauri e dieci operai che si trovavano sulla travatura di un viadotto sentirono improvvisamente mancare l’appoggio sotto i piedi. Il viadotto stava crollando ed essi precipitarono nel greto sottostante del fiume Lieser. Non si salvò nessuno.
L’ultimo episodio che si ricordi è abbastanza recente: risale al 21 febbraio 2015. Quella sera cedette il ponte ferroviario sul fiume Mur, in località Frohnleiten, sulla linea Graz-Bruck. Non ci furono vittime e fu davvero una fortuna, perché poco prima del crollo era transitato su quel ponte un treno carico di pendolari.
È questa successione di incidenti, ma in particolare il crollo del Reichsbrücke, ad aver indotto le autorità austriache a varare un piano di interventi a più livelli, per evitare altre disgrazie. Tra ponti stradali e ferroviari in Austria se ne contano circa 1700. Per la loro manutenzione e risanamento è previsto uno stanziamento annuo di 10 milioni. Le “cure” maggiori sono richieste dalle opere realizzate negli anni ’70, in cemento armato, come il viadotto di Genova.
Il programma di messa in sicurezza prevede un controllo “a vista” giornaliero da parte degli operai addetti alla manutenzione delle strade: devono soltanto segnalare se riscontrano qualche cosa di inusuale. Ogni due anni sono chiamati in causa gli specialisti, che esaminano più attentamente le strutture, per verificare l’eventuale presenza di crepe, rigonfiamenti, deterioramenti sotto la superficie isolante. Le ispezioni più approfondite avvengono con cadenza decennale, da parte di ingegneri civili, che poi dispongono eventuali programmi di intervento. Finora, peraltro, non sono mai state riscontrate criticità tali da richiedere la chiusura di ponti o viadotti.
L’attenzione maggiore viene dedicata alle strutture in cemento armato, la cui “vita” in genere non supera i 70-100 anni. Già dopo 30-40 anni, tuttavia, si rendono necessari radicali lavori di risanamento. Basta questo per assicurarci che i ponti non crolleranno? “Nonostante tutte le misure di sicurezza – rispondono i tecnici austriaci – non esiste una garanzia al 100 per cento”.
NELLA FOTO, una panoramica del Reichsbrücke crollato in tutta la sua lunghezza, visto dalla Torre del Danubio.
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